TRA IL BIANCO E IL ROSSO

Orange wine, il quarto colore del vino

di Federico De Cesare Viola

5' di lettura

Orange is the new white. Non sulle passerelle, ma nelle carte dei vini di ristoranti e wine bar di tutto il mondo. Da New York a Londra, da Milano a Sydney si fa spazio il quarto colore del vino: insieme a bianchi, rossi e rosati ecco anche gli orange wines, una (non) categoria che sta sparigliando le carte del mercato e sta conquistando, stagione dopo stagione, una fetta sempre più larga di appassionati. Vini bianchi in senso lato o – in altre parole – una sorta di ponte tra il mondo dei bianchi e quello dei rossi. Tecnicamente gli orange wines sono vini prodotti da uve a bacca bianca ma vinificati come se fossero dei rossi, dunque fermentati e affinati anche per lungo tempo sulle bucce, da cui prendono il colore.

Ecco perché, soprattutto all’estero, molti ristoratori e sommelier preferiscono utilizzare i termini “macerated” oppure “skin contact” invece del controverso e scivoloso “orange”: i vini bianchi macerati non sono tutti arancioni e racchiudono una moltitudine di caratteri diversi. Alcuni possono essere di colori non marcati - giallo paglierino o dorato - ma sono stati comunque a contatto con le bucce: per capirlo è necessario assaggiarli e scoprire così la grande struttura e ricchezza aromatica. Altri, invece, sono di una tonalità ambrata oppure – come nel caso del Pinot Grigio - ramata. Nuance non convenzionali che potrebbero provocare qualche alzata di sopracciglio in chi non ha familiarità con questo stile di vinificazione, in cui il contatto prolungato del mosto con la buccia e i vinaccioli consente di estrarre le sostanze – tra cui flavonoidi, tannini e terpeni – che garantiscono colore, aromi, struttura e capacità di invecchiamento.

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Un metodo antichissimo

Non è certo un espediente di marketing. In Georgia, nel Caucaso, già 5mila anni fa i vini erano prodotti così: macerati sulle bucce in grosse anfore interrate dette qvevri. La tradizione della macerazione, comune fino al Dopoguerra anche in Italia, era andata quasi perduta a favore delle moderne tecniche di vinificazione prima di tornare in auge alla fine degli anni Novanta grazie all’intuizione di vignaioli pionieri come Joško Gravner e Stanko Radikon a Oslavia, in Friuli. I tempi erano maturi, in questo fazzoletto di terra del Collio Goriziano al confine con la Slovenia, per la manifestazione di un pensiero alternativo e rigoroso, improntato al rispetto della natura, all’espressione del terroir e al ritorno al significato originario del vino.

Gravner, già produttore affermato, inizia nel 1997 a recuperare la pratica della macerazione, senza controllo della temperatura, filtrazione, chiarifica e uso di solfiti: «All’epoca non mi sono posto il problema del mercato o dei gusti del pubblico – spiega Gravner –. Non ero soddisfatto dell’approccio, che ritenevo troppo invasivo, e pensavo che il risultato fosse troppo lontano dal frutto che portavo in cantina». Da oltre un quarto di secolo nella sua vigna non si utilizza la chimica: «La concimazione per la terra è come la droga per l’uomo - conferma - : ti dà la forza e ti uccide. Nel caso della terra uccide i microrganismi che tengono il terreno vivo». Gravner andò per la prima volta in Georgia nel 2000 per poi iniziare a vinificare, dall’anno successivo, in grandi anfore in terracotta interrate, rigorosamente georgiane «perché la loro argilla non contiene piombo». Per Gravner la formula è apparentemente semplice: meno attrezzi si hanno in cantina, più qualità si ottiene. A patto di partire dalle uve migliori e più sane. La Ribolla Gialla è l’unica varietà bianca (insieme al Pignolo, per quanto riguarda il Rosso) a cui questo filosofo della sottrazione ha deciso di dedicarsi nel futuro, avendo interrotto già da tempo la coltivazione di Sauvignon, Pinot Grigio, Chardonnay e Riesling Italico, uvaggio alla base del mitico (e ormai quasi introvabile) Bianco Breg: «Se la nostra è una terra da Ribolla, perché sprecarla con altre varietà?».

Alla guida dell’azienda – 15 ettari in produzione per un numero di bottiglie che varia da 15 a 35mila a seconda dell’annata, con statunitensi e giapponesi in testa ai cultori del mercato estero - c’è anche la figlia Mateja: «Il filo conduttore del nostro pensiero è sempre stato la pulizia: togliere tutto quello che non è indispensabile. Lasciare che la natura si esprima, senza volerla comprimere o concentrare. Chi approccia i nostri vini prende consapevolezza che la natura è variabile e capisce l’influenza di ogni annata e di ogni vendemmia. In questo tipo di vini ci possono essere piccoli difetti ma è bene non perdere di vista il limite dove la sbavatura smette di essere piacevole».

Vini diversi per colori e profumo

Ai neofiti di questo mondo consigliamo la visione del breve documentario Skin Contact: Development of an Orange Taste – in cui sono protagonisti, oltre a Gravner, altri grandi artigiani come Angiolino Maule e Daniele Piccinin – ma soprattutto il libro Amber Revolution: How the World Learned to Love Orange Wine di Simon J. Woolf, il testo più solido e accurato finora pubblicato sul tema.

«La diversità è sempre una ricchezza – prosegue Mateja – ma l’importante è non spaventare il consumatore e non avere un atteggiamento di superiorità. Credo che la prima cosa che affascina di questi vini sia il colore, in grado di comunicare la lunga storia che hanno alle spalle, e i profumi, diversi da quelli a cui siamo abituati. In bocca hanno l’eleganza, l’acidità e la freschezza dei bianchi e la struttura e la complessità dei rossi». E sono anche molto versatili negli abbinamenti: «A patto – conferma - di aver voglia di divertirsi senza troppi tecnicismi e di non sottostare ai diktat delle degustazioni. La cosa fondamentale è la temperatura di servizio, che non deve mai essere troppo fredda, a differenza dei bianchi: quella ideale è tra 12 e 16 gradi». I vini Gravner, degli assoluti per purezza e armonia, escono sul mercato dopo un ciclo di 7 anni dalla vendemmia, addirittura 14 o 15 nel caso delle selezioni: «Il vino deve uscire quando è pronto, non ci adattiamo alle mode e alle richieste del mercato. Serve imparare ad aspettare: le cose buone hanno bisogno di pazienza e un vino lo giudichi solo sulla lunghezza».

Coraggio da giovane vigneron

Oggi tanti giovani vigneron, dalla Liguria alla Sicilia, dalla Spagna alla Francia all’America, stanno sperimentando un metodo produttivo più naturale e artigianale: «Sicuramente - conclude Mateja - abbiamo ispirato e dato coraggio a molte persone. È un pensiero più ampio che non riguarda solo il vino: dimostra che un’altra strada è possibile». Avvertenza finale: guai a dire “orange” in presenza di Joško. «Se un vino è arancione - contesta - vuol dire che è già ossidato. I miei vini sono ambra, un colore vivo!».

Come e dove si beve

Il bicchiere giusto
Per degustare al meglio i suoi vini, Gravner ha ideato delle coppe di vetro senza stelo con due rientranze per le dita: in questo modo la mano cinge il bicchiere e avvicina il vino all’uomo, con un gesto simbolico

I wine bar dove degustarli

Milano: Vinoir (Ripa di Porta Ticinese, 93b) e Champagne Socialist (via Lecco, 1). Torino: Banco Vini e Alimenti (via Mercanti, 13F). Venezia: Vino Vero (2497, Fondamenta della Misericordia). Roma: La Mescita (Via Luigi Fincati, 44) e Rimessa Roscioli (Via del Conservatorio, 58). Palermo: Bocum Mixology (Via dei Cassari, 6).

Gli appuntamenti
Not Rassegna dei Vini Franchi:
12-14 gennaio, Palermo

Vignaioli Naturali a Roma:
26 e 27 gennaio

VinNatur Roma:
23 e 24 febbraio, Roma

ViniVeri: 5, 6 e 7 aprile, Cerea (Vr)

Summa: 6 e 7 aprile Magrè sulla Strada del Vino (Bz)

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